Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze.

Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie vai alla sezione Cookie Policy. Per saperne di piu'

Approvo
Giovedì, 25 Aprile 2024
180_winet.jpg010_bluesea.jpg025_radallarm.jpg205_martena.jpg020_idrovelox50.jpg210_mondofiori.jpg220_liaci.jpg040_compasso.jpg200_carrozzo.jpg
L’identità di un paese si costruisce quasi sempre con l’immagine della sua chiesa più importante. Carmiano ha colpevolmente cancellato nel 1961 l’antica chiesa matrice, perdendo in maniera irrimediabile questo riferimento identitario. Nel panorama salentino è uno dei pochi centri che ha perso il suo primitivo volto. Per un verso fa rabbia, per un altro fa tristezza, ma basterebbe questo solo evento per giudicare l’inadeguatezza della classe dirigente che ha governato il paese negli anni successivi al secondo dopoguerra.
La storia di Carmiano non è possibile raccontarla con una passeggiata nel vecchio agglomerato urbano. Non esiste più il centro storico formatosi nel Cinquecento, l’antica piazza è stata spazzata via per fare posto ad un anonimo incrocio viario, anche le vecchie “curti” sopravvissute all’incuria sono state rimodulate senza alcuna tutela sul piano conservativo, il rifacimento edilizio privo di senso su manufatti d’epoca ha finito per distruggere tutte le più significative tracce del passato, in modo particolare quelle architettonicamente e storicamente rilevanti, ancora custodite fino ai primi decenni del Novecento. Si sono salvate da questo scempio la chiesa dell’Immacolata e, ma solo in parte, il palazzo baronale dei padri Celestini di Santa Croce, anch’esso soggetto a ripetuti adattamenti edilizi che ne hanno alterato l’originario impianto, un accanimento che è continuato fino ai giorni nostri senza trovare una dignitosa e definitiva soluzione, sospesa in attesa di essere chiarita per l’esorbitante richiesta di un privato nei confronti del Comune, nuovo proprietario della struttura, per lavori di consolidamento statico effettuati negli anni appena trascorsi (spero con l’esplicita approvazione e il diretto controllo della sovraintendenza BB.AA., trattandosi di un bene architettonico vincolato).    
Per ricostruire le vicende storiche di Carmiano dobbiamo solo affidarci alle carte superstiti conservate negli archivi e a poco altro. Il primo dato che emerge dalla consultazione di queste carte è quello che il paese sin dalla sua nascita si rivela una comunità multietnica, formata dal mescolamento progressivo di forestieri di diversa provenienza, tra cui albanesi, slavi, giannizzeri, greco-bizantini, zingari-girovaghi e via via di altre parti della penisola (veneziani, genovesi, napoletani e di altre etnie, non ultima quella spagnola dominate per oltre tre secoli) con l’aggiunta crescente di una presenza indigena del territorio circostante. I Celestini sono molto attivi nel popolamento del loro feudo e all’inizio cercano di veicolare risorse umane in fuga dalla minaccia ottomana, favorendo anche il riscatto di schiavi cristiani caduti nelle loro mani. Paradossalmente nel primo secolo di vita del casale i cristiani di religione ortodossa risultano ancora in larga maggioranza, finendo per far sopravvivere nella quattrocentesca chiesa curata di San Giovanni Battista le funzioni liturgiche orientali. 
I Celestini si avvedono con ritardo degli approdi indesiderati della loro politica migratoria e cercano di porre rimedio, spingendo slavi e albanesi verso i nuovi agglomerati (in tutto nove) del tarantino, nati per ospitare esclusivamente i transfughi dell’altra sponda dell’Adriatico, selezionando con maggiore attenzione il flusso insediativo interno e collaborando intensamente con il vescovo di Lecce al fine di ripristinare estensivamente il controllo romano sull’intero territorio di loro pertinenza. Una strada che nel Quattrocento si presenta ancora stretta, ma che si allarga notevolmente nel primo Cinquecento, quando i padri di Santa Croce decidono di destinare risorse per la costruzione del loro palazzo baronale e di porre in essere altri incentivi per la costruzione della nuova chiesa matrice. 
La nuova chiesa matrice (che ingloba l’antica chiesa curata di S. Giovanni Battista) viene inaugurata nel 1560, tre anni prima della chiusura del Concilio di Trento, pronta ad esercitare un ruolo centrale nella vita della comunità. L’edificio sacro viene realizzato con il concorso collettivo della popolazione locale. La chiesa nasce di patronato comunale, con uno statuto ricettizio, cioè con una massa di beni vincolati al solo sostentamento del clero e dei chierici nativi di Carmiano. La sua intitolazione non è casuale. Dedicando la nuova struttura religiosa a S. Maria Assunta in quel periodo significa che il luogo in cui sorge è stato pienamente latinizzato, assoggettato cioè in via definitiva al controllo della chiesa romana. Da allora i riti della religione ortodossa vengono banditi e del tutto oscurati nella nuova parrocchia, anche se il celibato sacro imposto dalle disposizioni conciliari tridentine non viene rigidamente osservato, scontando un non breve periodo di rodaggio dovuto al persistere della tradizione orientale (con i preti che possono legittimamente prendere moglie) in un Salento che aveva guardato per lungo tempo più a Bisanzio e meno a Roma.
La nuova chiesa matrice diventa il luogo elettivo nelle vicende comunitarie, segnando le diverse fasi della vita degli abitanti. Il primo atto di nascita con il battesimo e l’ultimo, quello della morte, con la sepoltura, avvengono in chiesa. Si inizia e si finisce di vivere nello stesso edificio sacro. Nella parrocchia inoltre si svolgono le funzioni di affiliazione religiosa intermedie, legate alla prima confessione e comunione, alla cresima e al matrimonio. Nei periodi di difficoltà esistenziali la parrocchia fornisce conforto e assistenza, affidando gli afflitti alla protezione celeste. In antico regime Il luogo sacro nell’imaginario collettivo è vissuto come fuga dal quotidiano con i suoi riti ebdomadari, le processioni dei santi, le predicazioni quaresimali, i panegirici e le solenni omelie domenicali. Non solo benedizioni con l’aspersione di acquasanta e con il profumo di incenso, ma anche cultura, erogata dall’unica scuola attiva del paese, quella parrocchiale. Nella chiesa matrice il clero incardinato svolge compiti formativo-educativi non trascurabili, assicurando lezioni di alfabetizzazione primaria e soprattutto di greco, di latino, di filosofia, di musica per i giovani più promettenti desiderosi di ascendere agli ordini sacri e/o di conseguire un titolo accademico. Nella chiesa cinquecentesca si avviano le prime sperimentazioni di indottrinamento cristiano con il catechismo ai fanciulli imposto dal Concilio di Trento, ma si organizzano anche incontri di svago, ludici e di intrattenimento, per alleviare la durezza esistenziale. In poche parole l’antica parrocchia carmianese è stata per cinque secoli l’unico e insostituibile teatro funzionante, sempre aperto e accogliente, una sorta di rifugio ricercato e appagante. In quel luogo tutti gli abitanti si sono riconosciuti protagonisti, attori emotivamente coinvolti, pronti a dimenticare soprusi e invidie, affratellati da un unico destino, quello di sperare in un futuro ultraterreno privo di sofferenze e di rivalità. La cieca decisione di cancellare la chiesa nel 1961 ci vieta di raccontare tutto questo attraverso la visione viva dell’edificio sacro. Esso non può più parlare alle nuove generazioni perché distrutto e sostituito da una costruzione moderna che ha privato Carmiano di continuare a specchiarsi nella storia più profonda del suo passato.
Mario Spedicato  
Published in Richiami
Carmiano come comunità nasce alla fine del Medioevo. Prende la forma di casale nel primo Quattrocento per assumere un’identità abitativa inconfondibile solo nella seconda metà del secolo per iniziativa dei Celestini di Santa Croce di Lecce, nuovi signori del feudo a partire dal 1448. I censimenti fiscali del periodo Aragonese (1443-1503) documentano enormi difficoltà insediative, che non consentono ad assicurare al nascente agglomerato urbano una lineare evoluzione demografica. A metà del XV secolo a Carmiano è segnalata la presenza stabile di 13 famiglie (circa 50 persone), numero che resta in buona sostanza bloccato per tre-quattro decenni. Solo nel primo Cinquecento si registra un cambio di passo che porta il casale ad allargare il suo perimetro abitativo. Già nel 1530 le famiglie che vi abitano risultano 60 (250 abitanti circa), crescono a 98 nuclei (poco più di 350 abitanti) nel 1561 e toccano la punta più alta nel 1595 con 168 unità domestiche (equivalenti grosso modo ad oltre 600 anime). In estrema sintesi lo sviluppo demografico più consistente a Carmiano si verifica nel corso del XVI secolo, in concomitanza con la scelta dei feudatari di erigere il loro palazzo baronale e con la nascita nel 1560 della nuova matrice intitolata all’Assunta, in sostituzione della vecchia chiesa eretta nel secondo Quattrocento intitolata a San Giovanni Battista con annesso un piccolo cimitero a cielo aperto. 
Già quindi nel XVI secolo si possono isolare i primi tratti identitari della popolazione carmianese, che nella sua iniziale struttura morfologica-genetica appare fortemente segnata da forzati spostamenti di popolazione dall’interno e da cicliche migrazioni estere, in massima parte provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico. I protagonisti principali del fenomeno di ripopolamento del territorio sono senza dubbio i Celestini di Santa Croce di Lecce, che hanno interesse a rendere un feudo, da poco acquisito, da disabitato a popolato. Nel secondo Quattrocento si adoperano per costruire una comunità intorno ad un pozzo, avviando contestualmente un progressivo disboscamento delle zone limitrofe e liberando il territorio dalla massiva presenza di lupi, atti che consentono di creare le pre-condizioni necessarie per favorire l’exploit demografico del secolo successivo.                  
Nel Salento durante il primo Cinquecento i flussi migratori esterni sono imposti soprattutto dalle minacce ottomane nel Mediterraneo orientale. Slavi e albanesi per non cadere sotto il dominio turco (l’Albania cade in mano ottomana nel 1478) scelgono di riparare altrove, lasciando la loro terra e trovando nell’accoglienza dei salentini un approdo sicuro. Nel 1506 a Carmiano risultano già insediate 8 famiglie di origine albanese e altre 5 di slavi (slavoni o schiavoni come vengono appellati), accolti dai Celestini come perseguitati politici e per questa ragione esentati da qualsiasi contribuzione fiscale. Il primo agglomerato urbano che si forma intorno al pozzo del casale è composto in buona parte da forestieri, lontani dal rappresentare geneticamente i Messapi, gli antichi abitatori del Salento. I Celestini cercano anche manodopera per avviare il disboscamento del feudo e la trovano nella larga disponibilità delle robuste braccia dei Giannizzeri, circa 2000 guerrieri al servizio del Sultano, che dopo però la riconquista di Otranto nel settembre 1481 da parte dell’esercito aragonese si rifiutano di ritornare a Valona (sede della flotta turca nel Basso Adriatico), decidendo di stabilirsi in via definitiva nel Salento. Parte di questa forza-lavoro viene intercettata dai Celestini e utilizzata per recuperare aree boschive alla coltivazione. Non si conosce il numero dei Giannizzeri impiegati nell’opera di deforestazione e neppure quanti di loro chiedono di far parte della nascente comunità di Carmiano. I loro incomprensibili cognomi per necessità comunicative vengono prontamente volgarizzati, perdendo rapidamente la loro primitiva origine. Da qui la difficoltà di individuarli, finendo per essere confusi nella schiera eterogenea dei forestieri. Un fatto tuttavia continua a segnarli: albanesi, slavi e giannizzeri sono tutti di religione cristiana, ma di rito ortodosso che praticano liturgie differenti da quelle riconducibili al rito cattolico-romano. Non è un caso che nella quattrocentesca chiesa curata di San Giovanni Battista, almeno per un secolo dalla sua istituzione, si celebrano entrambi i riti (per abluzione e per immersione come nel battesimo) a seconda della affiliazione religiosa bizantina o romana. Bisogna attendere i decenni successivi al Concilio di Trento (1545-63) perché si affermi in forma definiva il solo rito romano, vietando rigorosamente quello trasmesso dalla chiesa cristiana orientale, considerato dalla Curia papale eretico e non più tollerabile.
La mobilità esterna che viene alimentata da trasferimenti provenienti dall’altra costa dell’Adriatico a Carmiano si somma con quella interna, numericamente maggioritaria, che vede protagonisti altri nuclei familiari del circondario. Impossibile censire questi spostamenti da un paese all’altro del Salento in mancanza di documenti probanti (come per esempio i registri dei matrimoni, disponibili nel nostro caso solo dagli anni ’30 del Seicento). Spesso si tratta di una mobilità provvisoria, altre volte con un radicamento definitivo. In seguito tuttavia a queste nuove presenze domestiche si allarga l’antico perimetro abitativo. L’agglomerato originario del paese nato nel Quattrocento intorno ad un pozzo non basta più a contenere la crescita demografica registrata nel corso del Cinquecento. Si cercano nuovi spazi edilizi fuori dal primitivo insediamento. Si fanno interpreti di questa necessità le prime (in ordine temporale) famiglie dominanti del paese, ossia i Meliteno, i Franco, i Gratiano e, più tardi, anche gli Scardia. Questi nuclei escono progressivamente dall’anonimato urbano perché in grado di costituire autonomamente proprie “isole” (quartieri, corti) a loro intitolate che servono a distinguerle dal resto della popolazione residente. Sono famiglie che esercitano per lungo tempo il potere locale con parroci e sindaci a loro ascrivibili, ma sono anche famiglie che non possono vantare né un’origine autoctona e neppure di esprimere note casate nobiliari. La fortuna dei Meliteno va esclusivamente ricondotta alla lontana parentela con il capitano militare di Lecce, quella dei Franco al riscatto dalla schiavitù da parte dei turchi, l’altra dei Gratiano ai favori concessi dai Celestini, mentre per gli Scardia ad un’abile, benché di corto respiro, strategia matrimoniale. In buona sostanza anche ai livelli alti della primitiva popolazione carmianese si tratta di parvenus di forestieri che non forniscono nessuna autentica e visibile traccia di un paese con una identità indigena ben marcata. Già dalla sua nascita Carmiano è un paese formato da forestieri di diverse etnie e lo resterà per lungo tempo.
Mario Spedicato
Published in Attualità
Carmiano finisce di essere solo un toponimo del territorio salentino (saltus carmianensis) per diventare una piccola comunità solo a metà del XV secolo, poco prima che il feudo fosse acquisito dai Celestini di Santa Croce di Lecce. Da allora viene segnalato nelle fonti coeve come un casale “non murato” cioè senza mura difensive e senza porte di accesso controllate, come nei paesi limitrofi di Copertino, Veglie e Leverano, la cui origine affonda nel cuore del Medioevo. Rispetto agli insediamenti dotati di castelli angioini (Copertino) e di torri federiciane (Leverano) ovvero di visibili reperti di difesa per documentare una storia più antica, Carmiano non può vantare nulla di tutto questo, essendo di nascita posteriore, tardo-medioevale, un agglomerato urbano cioè di più recente impianto, aperto e senza linee di protezione, la cui sopravvivenza è interamente legata alla politica insediativa messa in opera dai Celestini di Lecce a partire dall’inizio del XVI secolo per rendere il loro feudo produttivo e conveniente sul piano economico attraverso l’esazione sempre più larga dei vari diritti signorili.
A Carmiano per la sua ristretta dimensione abitativa dovuta al lento e contrastato sviluppo demografico viene sempre attribuito nella documentazione ufficiale il titolo di casale, quasi mai quello di “universitas civium” attribuito solo alle comunità urbane di una certa importanza istituzionale (Lecce, Gallipoli, Nardò, Copertino, ecc.). Ciononostante in modo particolare nel XVIII secolo gli amministratori del paese scelgono di utilizzare il termine “università” nelle carte trasmesse a Napoli per non sentirsi declassati rispetto ai centri più vicini, che godono di questo privilegio da tempi più remoti. Un’attestazione, quella di universitas, che si consolida in maniera crescente, suffragata dal ruolo esercitato in difesa dei diritti dei propri cittadini in seguito alla lunga controversia accesa contro la feudalità nel primo Settecento. Solo allora il governo cittadino si scopre come un potere influente, rispetto soprattutto agli altri due predominanti, quello feudale ed ecclesiastico, ormai declinanti, posizionati sulla difensiva dopo che la Camera della Sommaria, il maggiore tribunale del Regno, accoglie le rivendicazioni della popolazione sostenute dagli amministratori dell’epoca, ridimensionando le esose pretese fiscali e le illegittime invadenze giurisdizionali dei Celestini di Lecce in particolari ambiti della vita comunitaria.        
Da quella data Carmiano come “universitas civium” applica in maniera continuativa lo stesso ordinamento normativo dei grandi centri per la formazione del governo cittadino. In buona sostanza si sceglie il sistema cetuale a rotazione, affidando ai tre ceti esistenti la scelta degli amministratori locali. Sia il ceto dei nobili, quanto quello dei mediocri (borghesia e professioni liberali) e degli infimi (contadini nullatenenti e piccoli proprietari, artigiani di basso livello, manovalanza lavorativa diversamente tipologizzata) hanno il diritto di esprimere a turnazione il sindaco e due decurioni (equivalenti agli assessori attuali), espressi liberamente e senza interferenze dal gruppo cetuale di appartenenza. Il sindaco resta in carica solo per un anno, la cui amministrazione inizia il 1° settembre e termina il 31 agosto dell’anno successivo (calendario bizantino). Il periodo amministrativo si chiude con l’invio del bilancio comunale a Napoli per l’approvazione regia, che avviene sempre con largo ritardo, confluendo nel calderone documentario degli “Stati Discussi” ovvero degli Atti Amministrativi vidimati dal potere centrale. Non tutti i sindaci risultano alfabetizzati se diversi atti giungono a destinazione con la firma del segno della croce, casi riscontrabili con maggiore frequenza quando alla guida dell’amministrazione si trova un sindaco del terzo ceto. Le competenze di pertinenza dei comuni coprono pochi e circoscritti settori operativi. Le risorse finanziarie residuali, detratte quelle riconducibili alla fiscalità generale, a malapena assicurano lo stipendio annuale del medico (dottore fisico), dell’ostetrica (la mammana), del mastrodatti (scrivano comunale), a cui aggiungere le spese per le periodiche manutenzioni della chiesa matrice, la predicazione quaresimale, la celebrazione della festa patronale, e, in via eccezionale, l’alfabetizzazione primaria, di solito affidata ad uno o più sacerdoti della parrocchia. A queste si sommano le spese giudiziarie (quasi sempre registrate fuori bilancio) per la provvista degli avvocati presso il tribunale del Sacro Regio Consiglio di Lecce e della Regia Camera della Sommaria di Napoli. Agli amministratori locali viene inizialmente affidata anche la riscossione delle imposte regie, ma subito inibiti per palese incapacità e appaltata privatamente ad arrendatori quasi sempre forestieri (come i Quitato, i Guainari e i Ravaschiero Pinelli, tutti di origine genovese), che con le tasse ci fanno la “cresta” e guadagni non trascurabili. Il fabbisogno finanziario dell’università di Carmiano si attesta nel Settecento intorno a 1200-1300 ducati annui.
Di questi larga parte (quasi il 40%) sono destinati alla Regia Corte, un’altra parte, quasi il 30% ai creditori fiscalari e un 13-15% all’appaltatore per lo jus esationis (delegato a riscuotere tasse comunali come il testatico sul capofamiglia e l’industria sul lavoro). In buona sostanza oltre l’80% delle risorse disponibili sono assorbite dagli obblighi tributari e il resto (meno del 20%) dalle spese comunitarie, destinate queste ultime ad assicurare i servizi essenziali (medico e ostetrica) e gli impegni statutari, in massima parte di natura religiosa. Le crescenti difficoltà finanziarie dovute al mancato conseguimento del pareggio di bilancio per l’impossibilità di realizzare la riforma catastale con l’imposizione sulle proprietà realmente possedute riporta indietro la lancetta fiscale con il ritorno al sistema gabellare ossia alla tassazione diretta dei beni di prima necessità (tra cui il sale, la farina e altri generi alimentari). L’antico regime chiude i battenti come li aveva aperti, cioè ridando centralità fiscale alla gabella come strumento primario di tassazione.
Una significativa svolta si registra nel primo Ottocento, nel periodo della dominazione francese (1806-15), quando si assiste ad una radicale riforma nel governo delle municipalità. Abolita la feudalità e ridimensionato il ruolo della chiesa l’amministrazione comunale diventa centrale per la gestione del potere periferico. Ai Comuni vengono attribuite nuove e più vaste competenze, a partire dai registri anagrafici, prima gestiti dalle parrocchie, e per finire all’assistenza pubblica, passando dalla sistemazione urbanistica e dalla cura della viabilità stradale. La carica di sindaco non è, come prima, disponibile per tutti i cittadini, ma solo per i proprietari alfabetizzati, i cosiddetti “galantuomini”, quelli cioè che sanno leggere e scrivere, capaci di allestire un bilancio comunale e iscritti nel registro dei contribuenti fiscali. La terra diventa ora il bene primario da tassare, ma non in maniera indiscriminata, ma a secondo del suo intrinseco valore, di prima, seconda o terza classe. Da qui la nascita di una nuova schiera di amministratori, in larga parte provenienti da Lecce e dal circondario che si stabiliscono a Carmiano in seguito alla svendita del patrimonio immobiliare feudale e degli Ordini religiosi, il cui profilo sociale non muterà nel periodo post-unitario, quando il comune diventa la prima azienda pubblica del paese con un suo apparato burocratico in continua crescita.             
 
Mario Spedicato
 
Published in Attualità
Carmiano è nata e cresciuta come una comunità povera e raccogliticcia, ibridata da fenomeni migratori costanti e da forestieri che hanno trovato sempre accoglienza per la convenienza dei padroni del feudo, I padri Celestini di Santa Croce di Lecce, ma anche per ragioni umanitarie in quanto un paese abitato da poveri non ha mai rifiutato di dividere (e condividere) quel poco che aveva con altri delle stesse condizioni sociali. Nel corso della sua storia plurisecolare Carmiano non ha conosciuto il formarsi di una schiera di ricchi, di famiglie cioè che hanno vissuto permanentemente di rendita perché dotate di consistenti patrimoni immobiliari, ma solo di famiglie che si sono riscattate con il duro lavoro quotidiano per assicurare i loro bisogni primari, per poter insomma sopravvivere alla miseria. Alcune di queste famiglie, una minoranza, riescono a raggiungere una relativa agiatezza economica con l’acquisizione di piccoli appezzamenti di terra, che le distinguono solo formalmente dalla stragrande maggioranza delle famiglie nullatenenti, ma con ricadute sociali di poco conto se le differenze si annullano di fronte alle congiunture negative che segnano frequentemente le stagioni agrarie. In quelle drammatiche occasioni le famiglie si scoprono tutte povere. I nuclei domestici però che ambiscono a civilizzarsi scelgono quasi sempre la strada del sacerdozio, una via che consente una minimale elevazione culturale e nello stesso tempo un facile accesso all’esenzione fiscale. Almeno fino alle riforme avviate nel periodo dell’Illuminismo quando i beni della chiesa per la prima volta vengono assoggettati, sia pure parzialmente, alla tassazione.
Dentro questo quadro di riferimento parlare di distribuzione della ricchezza a Carmiano appare un ossimoro, un discorso cioè senza senso. Nei vari censimenti fiscali che si ripetono dal XVI secolo in poi si assiste a richieste di esenzione persino del testatico (la tassa obbligatoria sul capofamiglia) per la dilagante miseria che soffre la popolazione. La presenza di tante famiglie indigenti spinge il governo spagnolo a rinunciare ad esercitare l’imposizione fiscale diretta e a rivalersi con quella indiretta attraverso l’inasprimento delle gabelle sui beni di prima necessità, tra cui il sale e i prodotti alimentari. In una comunità in cui predomina un’economia autarchica, come quella carmianese, lo scambio in natura si rivela meno pesante e comunque più alla portata delle effettive risorse materiali disponibili, in una realtà arcaica in cui si sconta una circolazione quasi inesistente della moneta corrente. Quello che serve per assicurare la sopravvivenza dell’intera popolazione viene dalle provviste dei raccolti agricoli annuali e dalla loro diversa accumulazione. Il baratto diventa l’unico strumento di riserva per l’approvvigionamento alimentare, un’espediente nel lungo periodo ben collaudato per far “sbarcare il lunario” ai più, alle famiglie povere e a quelle meno povere. Per questa ragione la terra resta l’unica vera ricchezza possibile, il possesso a cui tendere in via prioritaria, quello che mette parzialmente al riparo dalle cicliche emergenze epidemiche con annesse carestie, in quanto considerata la risorsa produttiva irrinunciabile, la sola che può sorreggere a lungo l’intera vita comunitaria.
Ancora a metà del XVIII secolo dentro una struttura socio-professionale bloccata a Carmiano emerge una larga schiera di piccoli proprietari che sembrano aver raggiunto l’obiettivo tanto agognato del possesso fondiario. Nel censimento fiscale del 1748 vengono riportati 194 fuochi (famiglie soggette a tassazione) formate prevalentemente da addetti all’agricoltura, pari a circa il 62%, mentre gli artigiani qualificati come tali risultano meno del 10%, i merciari quasi il 6%, i professionisti appena il 5%, i vedovi, le vedove e le vergini in capillis (nubili) insieme si avvicinano al 18% del totale. La maggioranza dei fuochi censiti dichiara il possesso di piccoli fazzoletti di terra che coltivano in proprio. Un dato certamente significativo che non deve però trarre in inganno, in quanto in non pochi casi tale possesso risulta irrilevante ai fini del miglioramento delle condizioni materiali delle famiglie. Messi da parte i 50 fuochi (il 26% dei censiti) che dichiarano di essere in possesso solo delle loro braccia (cioè di essere nullatenenti), gli altri risultano proprietari di appezzamenti di terra di dimensioni insignificanti che non possono da soli assicurare una piena autonomia alimentare all’azienda domestica se i membri della famiglia sono costretti a lavorare “a giornata” su terreni altrui. Qualche dato rende meglio la situazione. Dei 136 fuochi di proprietari 49 sono detentori di due-tre stoppelli di terra (uno stoppello equivale a 8 are, un tomolo è formato da  8 stoppelli), altri 39 fuochi dichiarano mediamente 7-8 stoppelli, altri 30 superano di poco i 10 stoppelli, solo 18 fuochi vantano il possesso di beni fondiari che oscillano dai 21 a 50 stoppelli.
Le eccezioni, in buona sostanza, si riducono però a pochi casi, coinvolgendo appena 6 fuochi la cui proprietà si attesta tra i 51 e i 100 stoppelli, a cui si aggiungono altri 2 fuochi che si distinguono su tutti possessori di una proprietà agraria che supera di poco i 100 stoppelli. In base a calcoli oggettivi oltre la metà dei piccoli proprietari destinano i loro fazzoletti di terra all’autoconsumo senza tuttavia soddisfarlo pienamente e permanentemente; un obiettivo quest’ultimo più alla portata dei 18 fuochi detentori di oltre 20 stoppelli, ma non sempre raggiungibile senza la disponibilità di altre entrate. Non è un caso se tra questi possessori si ritrovano 6 bracciali che vivono anche “a giornata”, un vaticale, un maestro muratore, un molinaro, un maestro legnaiuolo, un barbiere, un merciaro, un dottore fisico, un chierico, ecc. che considerano la terra un bene-rifugio potendo contare su altre risorse economiche provenienti dalla loro quotidiana attività professionale. Tra i 6 fuochi che denunciano una proprietà fondiaria superiore ai 50 stoppelli vi sono 2 bracciali, un chierico coniugato, un negoziante, un civile “vivente del suo” e un nobile assente che vive a Lecce, mentre i due fuochi che vantano il possesso di oltre 100 stoppelli sono esponenti del ceto dei civili. 
La ricchezza del paese va quindi ricercata in antico regime in una proprietà agraria frantumata che non prospetta alcuna mobilità sociale, pur dentro potenzialità economiche diversificate. Anche all’interno della categoria socio-professionale dei bracciali si rintraccia una casistica del possesso non appiattita nelle dimensioni fondiarie, ma proiettata unicamente verso la monocoltura. Sia il piccolo possidente sia il meno piccolo coltivano i loro fazzoletti di terra prevalentemente a seminativo con poche eccezioni. Si segue una regola condivisa da tutta la comunità: per soddisfare le esigenze alimentari quotidiane prima di tutto non deve mancare il pane e poi, se trova posto, anche l’olio e il vino.  Per questa ragione il seminativo resta la coltura predominante. Diventa persino invasiva nei fondi di oliveto, segno appunto della necessità inderogabile di garantire il fabbisogno di cereali necessario al sostentamento della propria famiglia. Il lavoro dei campi non riguarda solo gli addetti all’agricoltura, quelli appunto classificati come bracciali, ma tutti i ceti professionali, artigiani e merciari compresi, che alternano il loro mestiere con quello proprio del contadino. Carmiano in antico regime è un paese di contadini, strutturato sullo sfruttamento intensivo della risorsa agraria che coinvolge tutta la comunità, senza distinzione cetuale e professionale. Un paese insomma, come tanti altri del Salento, che esprime nel possesso della terra l’unica ricchezza possibile, quella che consente di sopravvivere alla diffusa miseria.                    
 
Mario Spedicato
Published in Attualità

A Carmiano il primo censimento della popolazione residente di cui resta traccia documentaria risale a metà circa del XV secolo. Vengono segnalate 13 famiglie ma non riportate le loro generalità. Solo alla fine del secolo quando ormai il primitivo nucleo urbano si accresce sensibilmente di numero si possono individuare alcune famiglie dominanti. Essendo un centro abitato prevalentemente da contadini poveri, in larghissima parte provenienti da altre zone, la scalata sociale avviene attraverso la strada del sacerdozio. Una scelta che consente non solo di emanciparsi dalla miseria, ma anche di civilizzarsi ossia di distinguersi per livello culturale dall’insieme della popolazione analfabeta. La prima famiglia che emerge da questo indistinto microcosmo comunitario è quella dei Meliteno, che esprime i primi parroci del paese e si rende protagonista della costruzione della nuova chiesa parrocchiale, di piena obbedienza romana eretta nel 1560 (ora cancellata dall’insipienza amministrativa). Quando la chiesa-madre diventa operativa i Meliteno scoprono la concorrenza di altre due famiglie, dei Melcaro e dei Franco, che si contendono il potere civile ed ecclesiastico ricoprendo per un periodo non breve le cariche di sindaco e di arciprete. L’accresciuto potere spinge queste famiglie ad uscire dal primitivo centro storico, quello denominato Pozzo dello Casale, per formare delle isole insediative autonome (una sorta di rioni o meglio di corti domestiche per ospitare una famiglia allargata). Nascono così durante il XVI secolo le isole dei Meliteni, dei Franchi e dei Melcari. Già a fine Cinquecento sopravvive solo la famiglia Franco, che deve contendersi il potere locale non più con le vecchie famiglie dei Meliteno e dei Melcaro, ormai declinanti, ma con altre più agguerrite come quelle dei Gratiano e poi degli Scardia. All’inizio del XVII secolo con una popolazione che supera i 600 abitanti si registra un rimescolamento nelle compagini domestiche e la famiglia dominante dei Franco viene insidiata da altri nuclei emergenti che scelgono la competizione sul terreno collaudato del potere ecclesiastico ed amministrativo. I Franco riescono a conservare il dominio comunitario fin oltre la metà del ‘600 non perdendo mai il controllo della parrocchia e avvicendando propri esponenti alla guida dell’amministrazione civica. I Gratiano e gli Scardia, pur in forte ascesa, si accontentano di emulare i Franco nella costruzione di una loro isola autonoma, ma non trovano alcuno spazio per contendere il potere locale, saldamente nelle mani dei Franco per oltre un settantennio. Carmiano resta a lungo appesa al volere di questa potente famiglia che impone il suo dominio con inusitata arroganza. A partire tuttavia dai primi decenni del Seicento si fanno avanti prima timidamente e poi con crescente coraggio tentando di spezzare il predominio assoluto dei Franco le famiglie Provenzano, Casilli, Falli, Arnesano, Lecciso, Paladini e Monte (o De Monte). Bisogna però attendere la seconda metà del secolo perché i vecchi rapporti di forza mutino realmente. Sono i Casilli che per primi subentrano ai Franco alla guida della parrocchia e per trascinamento alla carica di sindaco. I Casilli scoprono quasi subito di avere una forte concorrenza nella famiglia De Monte, che già tra la fine Seicento e il primo Settecento risulta esercitare il potere locale in maniera incontrastata. I De Monte chiudono un’epoca, che vede una competizione ristretta a poche famiglie, legata per un verso ad un asfittico quadro demografico e per l’altro ad un accresciuto patrimonio della chiesa locale in seguito alla drammatica crisi del Seicento con l’istituzione di numerosi legati ad pias causas (conseguente all’aumento della domanda di servizi religiosi per il numero esorbitante di messe in suffragio), la cui titolarità è contesa dalle nuove famiglie emergenti, lotta che segna il percorso di ascesa sociale di alcune di queste, tra cui, oltre quella dei Casilli e dei De Monte, anche di altre riconducibili agli Albanese, Mieli , Lecciso, Provenzano, D’Agostino, Arnesano, Paladini e Sozzo.
Con il Settecento cambia progressivamente lo scenario del secolo precedente. I processi di secolarizzazione non risparmiano neppure comunità periferiche come quella di Carmiano, il cui clero privato dei privilegi fiscali è soggetto ad un ridimensionamento significativo. Si passa da 23 preti che servono la parrocchia all’inizio del Settecento a 9 alla fine del secolo, con un vistoso decremento nonostante un sensibile aumento della popolazione residente. La scelta sacerdotale finisce per diventare sempre meno attrattiva anche per quelle famiglie che mirano a civilizzarsi con gli studi in seminario. Lecce, prima ancora di Napoli, offre opportunità ad ampio spettro con le sue scuole pubbliche nate sulle ceneri di quelle degli Ordini religiosi e soprattutto di quella dei Gesuiti espulsi dal regno nel 1767. Nella parrocchia carmianese si assiste ad avvicendamenti non conflittuali che vede alla guida della chiesa locale parroci miti e culturalmente preparati (vincitori della carica di archipresbiter per concorso) come Giuseppe Mieli per lungo tempo e Vincenzo Leopizzi per un periodo più breve, entrambi espressione di famiglie insediate nel paese in tempi piuttosto recenti e non legate alle tradizionali lotte di potere locale, così come quelle vissute dai loro predecessori. La chiesa non si presta più, come nel passato, ad essere unico strumento per l’ascesa sociale delle famiglie più in vista.

Far parte del corpo ecclesiastico fornisce ancora prestigio, ma non più favori e privilegi. Non è un caso che la famiglia locale più importante del secondo Settecento emerga al di fuori delle dinamiche di sacrestia ed è espressa dal mondo delle professioni liberali. Si tratta della famiglia Miglietta, da poco trasferitasi a Carmiano, che ha come riferimento un notaio, Francesco Cesareo, capostipite di un nucleo domestico che segna positivamente la storia del paese. Altri notai prima di lui, come Donato Gravili e Eustachio Inguscio, seguono la via in sacris per i loro figli, ma senza lasciare tracce durature delle loro fortune economiche. Francesco Cesareo invece, pur non rinunciando ad istradare un figlio verso la carriera ecclesiastica, decide di veicolare il più promettente, Antonio, a formarsi presso le scuole pubbliche di Lecce e a completare gli studi in medicina presso l’università di Napoli. Antonio Miglietta diventa un grande scienziato, unico vanto di un paese di contadini rimasto a lungo anonimo. La biografia del Miglietta stride con il conformismo dei suoi concittadini. Da giovane laureato decide di tornare a Lecce, pur avendo vinto il posto di titolare presso l’ospedale S. Giacomo di Napoli. Dal 1790 insegna medicina presso il liceo leccese, partecipando attivamente alla vita pubblica cittadina e aderendo senza alcuna esitazione ai moti rivoluzionari antiborbonici del 1799. Fervente giacobino (termine equivalente a quello di “comunista” dei nostri tempi) si segnala come protagonista dell’erezione dell’albero della libertà nella piazza di Lecce. Accusato di cospirazione viene processato e condannato a due anni di prigione, che sconta nelle carceri del castello di Carlo V. Nel 1801 in seguito all’Indulto decide di trasferirsi a Napoli, dove associa all’insegnamento universitario la pratica vaccinica per debellare il vaiolo, svolgendo fino alla morte, avvenuta nel 1827, un’opera meritoria nel campo della prevenzione che lo consacrerà come insigne scienziato a livello europeo.
Nella prima metà dell’Ottocento il rimescolamento sociale a Carmiano si rivela più intenso dopo le riforme francesi del Decennio (1806-15) che aboliscono la feudalità e sopprimono gli ordini religiosi possidenti alienando i loro patrimoni. Carmiano come feudo ecclesiastico in mano alla signoria dei Celestini si presenta come una grande opportunità per acquisire a bassi costi la vendita frettolosa di questi beni. Calano nel paese molte famiglie leccesi (Libertini, Porretti, Foscarini, Massari, Foggetti, Coppola, Magli, Andrioli, Bitonti, Gustapane, ecc.) che con l’acquisto di ampi latifondi formano la classe sociale dei “galantuomini”,la nuova borghesia agraria protagonista della vita cittadina e dell’amministrazione civica fin oltre l’unità d’Italia. La parrocchia locale nello stesso periodo viene governata per oltre quarant’anni (1813-56) da un prete forestiero, Pasquale Parlangeli, originario di Novoli con un capitolo molto ridotto di preti locali, tra i quali spiccano ancora i rappresentanti delle vecchie famiglie dei Paladini, Lecciso, Graziano, Arnesano e Mieli.


Mario Spedicato

Published in Attualità

In Italia e in Europa assistiamo negli ultimi decenni ad un progressivo ridimensionamento del numero delle nascite. Carmiano e Magliano hanno segnato lo stesso trend negativo. Nulla di nuovo sotto il sole. Il problema tuttavia recentemente è esploso a livello di assistenza sanitaria perché si è scoperto di non poter più assicurare nel paese un presidio pediatrico permanente. La media annua del numero dei nati risulta largamente inferiore agli standard richiesti per soddisfare la presenza di un pediatra in pianta stabile. Si è cercato amministrativamente una soluzione provvisoria che non potrà però reggere all’urto della crisi. Se insomma nei prossimi anni la decrescita demografica continuerà le future mamme dovranno cercare altrove l’assistenza goduta fino alla recente messa in pensione dei due pediatri che hanno in maniera continuativa e per un lungo periodo seguito e curato le ultime generazioni di bambini e bambine del paese.

Finora la forte contrazione delle nascite non ha prodotto ricadute vistose sull’andamento demografico complessivo del paese. La popolazione di Carmiano e Magliano si mantiene sostanzialmente sui livelli acquisiti all’inizio di questo secolo. Si è perso certamente qualcosa nel numero totale dei residenti, ma non tanto da far presagire un inevitabile tracollo. L’equilibrio, se di questo si tratta, è assicurato dall’accresciuta presenza di extracomunitari che hanno scelto di stabilire la loro residenza nel paese. Una scelta che di riflesso ha anche contribuito ad attenuare la curva negativa delle nascite, tenuta in galleggiamento per l’apporto significativo fornito dalle donne fertili forestiere, con un numero dei nati sensibilmente superiore alla media accertata per le donne indigene, originarie cioè da famiglie locali.

Oggi come nel passato la sopravvivenza del paese è garantita dalla costante presenza di forestieri. Senza questo apporto Carmiano e Magliano sono destinati al declino demografico. Il quadro prospettico è abbastanza chiaro: gran parte dei giovani più promettenti nello studio cerca di perfezionarsi altrove per trovare immediati sbocchi nel mercato del lavoro, quelli abili nelle professioni si allontanano dal paese per conseguire gratificazioni economiche migliori, spingendo spesso anche le rispettive famiglie, i genitori in primis, ad abbandonare la loro terra per restare vicini ai figli. Il paese si va progressivamente svuotando di eccellenze e di specialismi, conservando quello che serve per coprire solo parzialmente il fabbisogno del terziario e del manifatturiero. Soprattutto l’agricoltura e il comparto turistico, che restano le maggiori risorse del territorio, senza la manovalanza dei forestieri non avrebbero certamente un futuro. Paradossalmente parte rilevante della ricchezza prodotta in Italia e a Carmiano è dovuta al contributo silenzioso (spesso ignorato o, peggio, dileggiato) dei lavoratori extracomunitari. Checché ne dicano i sovranisti della prima e dell’ultima ora.

Le vicende storiche di Carmiano e Magliano confermano ampiamente l’assunto che senza i forestieri i due paesi sarebbero da tempo morti e sepolti. I Celestini, padroni del feudo, già a partire dal XVI secolo per ripopolare i due piccoli insediamenti umani concedono gratuitamente terre per costruire le loro case e stabilire la loro residenza ad estranei provenienti da diverse parti, anche dall’altra sponda dell’Adriatico. Per incentivare l’esodo si spingono persino ad alleggerire i nuovi arrivati dalle tasse principali quali il focatico (sulla famiglia) e il testatico (sul capofamiglia abile al lavoro). L’apporto dei neo-residenti garantisce per lungo tempo un equilibrio demografico, sebbene ciclicamente rotto dalle frequenti epidemie e carestie. A Carmiano e Magliano il numero dei nati in antico regime non cresce in maniera sostenuta perché frenato dall’alto tasso della mortalità infantile (mediamente ogni 10 nati 3-4 muoiono nei primi anni di vita), ma anche condizionato sul piano temporale dalla ridotta fertilità femminile. Le donne del paese solo eccezionalmente superano i 30-32 anni per mettere al mondo un figlio. A ciò si aggiunga che molte di loro non riescono a portare a compimento la gravidanza in quanto malnutrite. Storicamente è impossibile documentare il numero degli aborti spontanei, un fenomeno che sfugge non solo alle statistiche ma anche al regime sanitario dell’epoca. Gli unici dati disponibili riguardano la mortalità femminile all’atto del parto, sensibilmente elevata (ogni 100 nati 9 puerpere non sopravvivono), fenomeno che quantifica il rischio reale a cui andava incontro una normale gravidanza. Carmiano poi non ha potuto disporre in diversi periodi di un’ostetrica (la mammana) per assistere le partorienti se tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento questo ruolo è stato esercitato in via permanente dal parroco del paese, Giovanni Andrea De Monte. Solo a partire dalla fine del Settecento, con il miglioramento delle condizioni igieniche, si è potuto assistere ad una progressiva contrazione della mortalità infantile e di quella femminile. Con l’Ottocento inoltrato i ritmi di crescita demografica si rivelano più intensi, consolidandosi nel corso del Novecento, ma si arrestano con l’avvio del terzo millennio. In estrema sintesi a Carmiano e Magliano negli ultimi due decenni il numero delle nascite risulta paradossalmente quello registrato in antico regime (mediamente 40-50 nati all’anno per Carmiano e 20-30 per Magliano). Con prospettive però facilmente immaginabili. Prima il fenomeno demografico era fortemente segnato dalle congiunture negative (alta mortalità infantile e femminile, preceduta e seguita da frequenti carestie ed epidemie) ora invece da ineludibili scelte di benessere sociale e familiare (controllo delle nascite e alte aspettative di vita). Gli esiti sembrano anch’essi scontati. Si avvicina un futuro in cui il paese perderà la sua attuale fisonomia insediativa, si svuoterà delle sue migliori energie umane. Salvo, come nel passato, una diversa e più coraggiosa politica migratoria, accompagnata da una radicale inversione degli attuali processi di sviluppo, ancora troppo lontani dal trattenere in loco tanti giovani desiderosi di mettere pienamente a frutto le loro competenze specialistiche.                  

Mario Spedicato

Published in Attualità
Venerdì, 05 Maggio 2023 18:15

Esiste il Carmianese doc?

Carmiano è un paese relativamente giovane. Ha poco meno di 600 anni. Non può vantare origini più antiche e men che meno alcuna discendenza messapica (con i primi abitanti del Salento). Non può neppure, come è stato ipotizzato dalla storiografia municipale ottocentesca, essere considerato un insediamento di origine romana, sebbene il toponimo, riferito però ad un territorio più vasto, sia nato proprio nel periodo dell’espansionismo mediorientale della città eterna. Il toponimo carmianensis sopravvive a lungo e lo si ritrova nei documenti medioevali preceduto dal termine Saltus (formando la dizione Saltus carmianensis) per indicare un’ampia zona forestale a nord-ovest di Lecce, oggi grosso modo comparabile con la Valle della Cupa. Il toponimo carmianensis tuttavia non si è mai identificato con un centro abitato, pur rimanendo nell’ager di Magliano labili tracce di un’officina di fabbricazione di anfore in epoca imperiale. Almeno fino ai primi decenni del XV secolo il territorio di Carmiano viene classificato nelle carte superstiti come un feudo disabitato cioè senza la presenza di uomini. Il casale con una comunità propria nasce solo con l’acquisizione del feudo da parte dei Celestini di Santa Croce di Lecce ovvero da metà Quattrocento in poi.

E’ interesse dei nuovi feudatari popolarlo per renderlo produttivo. Da qui la scelta di ricorrere ad incentivi per richiamare i primi abitanti ad insediarsi in un territorio ostile, infestato dai lupi e da un paesaggio prevalentemente boschivo, poco adatto all’agricoltura. Si procede in maniera graduale ma lenta: per un verso viene avviato il disboscamento e la messa a coltura del territorio e per l’altro si cerca di contenere la devastazione dei lupi sul raccolto con una taglia in denaro su ogni lupo ucciso. Ci vuole più di un secolo per ottenere qualche significativo risultato e perché il casale possa acquisire un’inconfondibile connotazione identitaria. Carmiano, in poche parole, si riconosce pienamente come comunità solo a partire dalla costruzione della chiesa parrocchiale nel 1560, quando appunto si registra il più importante decollo demografico e, con esso, la funzionalità dei poteri locali di antico regime (ovvero la feudalità rappresentata dai Celestini, la chiesa dal Capitolo della Matrice e l’universitas civium dall’amministrazione civica). Questo ritrovato profilo identitario consente di accertare l’esistenza di un DNA attribuibile al carmianese doc?

Facciamo un passo indietro. A metà Quattrocento a Carmiano risultano stabilmente insediate 13 famiglie. Non conosciamo la loro provenienza. Dopo qualche decennio tuttavia si possono individuare le famiglie predominanti con la nascita dei primi rioni intorno al pozzo del casale, rioni che assumono la denominazione di isole dei Meliteni, dei Franchi e dei Gratiani, veri e propri clan familiari allargati che oscurano gli altri abitanti che in misura diversa completano il quadro comunitario. Nel primo Cinquecento un significativo apporto demografico al casale viene fornito dal forzato esodo degli albanesi, costretti a lasciare la loro terra occupata dai Turchi, dopo la vana resistenza opposta dal loro condottiero cristiano, Giorgio Scandeberg. A Carmiano Il ceppo genetico albanese resisterà all’estinzione fino ai nostri giorni. Non così per i Meliteni, che dopo aver assunto una posizione di forza all’interno del paese, esprimendo diversi parroci e sindaci, vengono gradualmente a perdere consistenza numerica fino a scomparire del tutto. I Franchi e i Gratiani durano più a lungo (i cognomi Franco e Graziano esistono ancora oggi), ma si mescolano con altre famiglie (Scardia, Melcaro, Riello, Puscio, De Simone, Casilli, Monte, ecc.) sino a perdere la loro originaria identità.

A fine Cinquecento i Franchi risultano la famiglia più potente del paese, sostituendo i Meliteni in declino. Essi occupano le maggiori cariche comunitarie (parroco e sindaco) per un periodo non breve, ma il casale non è più quello di un secolo prima, avendo nel frattempo per iniziativa dei Celestini richiamato altre famiglie forestiere ad insediarsi nel loro feudo. L’incremento demografico di Carmiano tocca il suo punto più alto tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, passando da 400 a quasi 600 abitanti, arrivando e superando nel primo Settecento le 700 unità per poi entrare in una fase stagnante sino a perdere vitalità. Come spiegare questa paralisi demografica?

Due sono, in buona sostanza, i motivi che rendono asfittico il processo demografico a Carmiano. Il primo è riconducibile al “mercato matrimoniale” espresso da uomini e donne in età fertile ma con vincoli stretti di parentela; il secondo, dipendente dal primo, legato al divieto da parte della Chiesa di far contrarre matrimonio a nubendi fino al quarto grado di consanguineità. Regole rigide che vengono però trasgredite con il ricorso ad espedienti di cristallizzata memoria popolare (gli sposi “fuggitivi” che mettono di fronte al fatto compiuto le rispettive famiglie, ma che vengono esemplarmente puniti con il matrimonio riparatore celebrato in forma clandestina di primo mattino, senza pubblico, dopo una notte passata da penitenti in ginocchioni davanti al portone della chiesa). Carmiano non può crescere sul piano demografico se non si apre all’apporto esterno, se non accoglie cioè donne e uomini forestieri che evitino le combinazioni matrimoniali tra consanguinei proibite dalla Chiesa. Un fenomeno che interessa una pluralità di soggetti e che attraversa l’intera esistenza plurisecolare del casale, con un’inclusione a vasto raggio (da pochi fino ad un massimo di 400 Km di distanza) e con contaminazioni genetiche che investono diverse etnie. Attraverso l’anagrafe parrocchiale e in modo particolare i registri matrimoniali conservati nella chiesa matrice si può misurare il livello di mescolanza etnica. A Carmiano alle originarie famiglie già segnalate se ne aggiungono via via altre di provenienza esterna, arricchendo e differenziando il quadro insediativo. Si trovano ceppi di albanesi (come gli Schipa, i Mirto, i Petrelli, gli Albanese, ecc.), di zingari che scelgono la stanzialità (come Bevilacqua, D’Amato, De Matteis, De Pascalis, De Marco, Russo, Zimbalo, ecc.), di greco-bizantini (Greco, Mazzotta, Cuna, Santoro, Politi, Ianne,ecc.), di schiavi riscattati di pelle eterogenea che prendono il cognome del loro padrone (Durante, Guarino, Lubelli, Perulli, ecc.), di provenienza giannizzera (Spedicati, Spedicato, Levante, Rollo, ecc.), di etnia spagnola-portoghese (riconducibili ai cognomi Spagnolo, Portoghese, Perez, Falces, Barbosa, Fonseca, ecc.) di ebrei convertiti (Potenza, Barletta, Taranto, Brindisi, Cosenza, Catanzaro, ecc.) e di altre etnie tipologizzate geograficamente (Bergamo, Napoli, Romano, Fiorentino, Calabrese, Conversano, Arnesano, ecc.), trascurando quelle di diversa e frammentata origine. Un intreccio di famiglie sempre più esteso che mescola in maniera massiva la popolazione di Carmiano fino a caratterizzarla in via definitiva come meticciata. E’ davvero complicato dopo 6 secoli, durante i quali si sono avvicendati diversi gruppi etnici (spesso senza che essi rinuncino alle loro differenti culture e tradizioni), riuscire a stabilire l’identificazione dei caratteri autoctoni di un paese e trovare ancora “il carmianese doc”.     

Mario Spedicato

Published in Attualità
Giovedì, 06 Aprile 2023 18:49

Carmiano e Magliano: un destino comune

Carmiano e Magliano nascono come casali dello stesso feudo, quello che a partire da metà Quattrocento in poi è posseduto dai padri Celestini di Lecce. Hanno per questo motivo strutturale una storia parallela, con amministrazioni autonome ma solidali e compartecipate, storia rotta dal rifiuto di Magliano di dare seguito al censimento fiscale di metà Settecento. Da allora esplodono controversie che privano Magliano di un sindaco legittimato dai tribunali napoletani, assoggettando il piccolo centro in maniera definitiva alle dipendenze amministrative di Carmiano. Da quel momento in poi, nonostante l’avvicendarsi di governi municipali unitari che garantiscono un’equa rappresentanza delle due comunità, prevalgono risentimenti e dissapori di una parte della popolazione maglianese che non creano sintonia tra i due nuclei urbani. Soprattutto nel corso dell’Ottocento cresce l’antagonismo tra Carmiano e Magliano senza un’evidente ragione storica. Le due comunità dopo l’abolizione della feudalità avvenuta nel 1806 (il feudo torna al Demanio e quindi nelle competenze dell’unica amministrazione civica riconosciuta, quella espressa da Carmiano) non riescono a trovare un’unità di intenti, finendo per far emergere differenti livelli di crescita urbana fino allora oscurati e accettati in maniera poco rassegnata. Si scopre così solo tardivamente che la comunità di Magliano nel passato era stata pesantemente condizionata dalle scelte dei padroni del feudo, ovvero dei Celestini di Santa Croce di Lecce, prefigurando uno scenario che favorisce in forma esclusiva ed irreversibile Carmiano.

Sin da metà Quattrocento, in coincidenza con l’acquisizione-donazione del feudo da parte dei Celestini, Magliano si vede innanzitutto penalizzato dalle strategie logistico-amministrative dei nuovi feudatari che come primo atto scelgono di costruire il loro palazzo baronale (il vero centro del potere locale) in prossimità del nucleo abitato di Carmiano (pozzo dello casale), sull’unica via carrozzabile del tempo, via Lecce appunto, che tagliava fuori dal circuito delle comunicazioni proprio il piccolo centro di Magliano, il cui isolamento finisce per segnare negativamente le dinamiche di sviluppo urbano. La scelta della residenza signorile in Via Lecce si rivela strategica per Carmiano in quanto assicura un collegamento diretto con il capoluogo, ma più complicata per gli abitanti di Magliano costretti, invece, a passare da Carmiano per immettersi sull’unica strada carrozzabile. A Lecce in antico regime e fin oltre l’Unità d’Italia si arrivava non come oggi (per Arnesano o Villa Convento) ma passando attraverso la densa foresta che lambiva l’attuale Villa Maresca, per immettersi sulla traiettoria che affiancava il sopravvissuto rione Li Riesci-Li Tufi, proseguendo nel feudo di Arnesano in direzione della chiesa rurale di Madonna di Montevergine e finendo il suo percorso alle spalle dell’odierna caserma Zappalà (ancora oggi segnalata come via Vecchia Carmiano). A Lecce la maggioranza dei carmianesi e dei maglianesi andava a piedi per il disbrigo dei loro affari. In tre-quattro secoli di storia (secc. XV-XVIII) nessuno degli abitanti delle due comunità ha denunciato il possesso di una carrozza. Tranne due personaggi: Il titolare del feudo (l’abate dei Celestini) e l’architetto Giuseppe Zimbalo nei dieci anni (1644-54) in cui ha mantenuto la residenza a Carmiano dopo il matrimonio con Vittoria Indricci. Zimbalo, a differenza però dell’abate, non era proprietario di una carrozza classica (come quella conosciuta nei film d’epoca), ma di un modesto biroccio (strumento di trasporto che precede l’ammodernato calesse), con il quale scarrozzava a Lecce nei suoi quotidiani trasferimenti per lavoro anche altri paesani (parenti della moglie, parroco e preti delle due parrocchie, amministratori locali e anonimi cittadini). Dati i buoni rapporti tra lo Zimbalo e i Celestini di Santa Croce spesso l’architetto si prestava a fornire il servizio gratuito (il cosiddetto passaggio) anche agli esattori e/o ai fiduciari del barone, quando quest’ultimo era impedito ad assicurare la sua presenza in loco.

Gli amministratori di Magliano subiscono questo percorso viario, cercando con ritardo di porre un parziale rimedio. Nel corso del Seicento la municipalità si fa interprete dell’animo devoto, sostenendo l’erezione di una chiesa rurale non distante dall’abitato e in prossimità della carrozzabile per Lecce, la cappella tuttora esistente della Madonna del Bosco (titolo non casuale, rispecchiando a quel tempo fedelmente la toponomastica del luogo) che facilita i collegamenti della popolazione locale con il capoluogo senza passare inevitabilmente da Carmiano. Una scorciatoia che emancipa certamente Magliano dalla vecchia dipendenza stradale segnata dai Celestini, ma che non risolve il problema del suo isolamento urbano. Altri ostacoli lo rendono irrisolvibile e tra i tanti, quello legato al lento disboscamento del suo territorio. Il primitivo nucleo abitato sembra per lungo tempo soffocare dentro una vasta area boschiva, gran parte della quale non si riesce a recuperare all’agricoltura e alla messa a coltura di prodotti di prima necessità. Mentre per Carmiano i Celestini accelerano in forme diverse la deforestazione, allargando il primo nucleo urbano con la nascita di nuovi quartieri (la Gagliardina per esempio) con la migrazione di manovalanza lavorativa forestiera (in buona parte proveniente dall’Albania), per Magliano invece non si assiste ad iniziative della stessa portata, relegando il piccolo centro abitato ad un ruolo subalterno, neppure sussidiario al primo. Da qui la differente crescita demografica che segna in maniera emblematica il destino dei due casali.

A metà Quattrocento a Magliano risultano censite 10 famiglie, tre in meno di quelle accertate nello stesso periodo a Carmiano. Si parte da una presenza abitativa grosso modo uguale, ma che nel secolo successivo in seguito ai fatti prima ricordati (insediamento dei Celestini con il loro palazzo baronale, apertura della strada carrozzabile per Lecce, diverso disboscamento del territorio) le distanze tra le due comunità si allargano, diventando incolmabili. A fine Cinquecento Magliano registra la presenza di 60 famiglie, appena un terzo di quelle che vengono censite a Carmiano. Il rapporto di uno a tre resta inalterato nel corso del Seicento, riducendosi però durante il Settecento quando Magliano lambisce i 400 abitanti e Carmiano non riesce a superare le 1000 unità. La situazione demografica per Magliano evolve negativamente nell’Ottocento, dopo la perdita dell’autonomia amministrativa. A fine secolo la frazione denuncia una popolazione ancora lontana dai mille abitanti, mentre Carmiano ne registra più di quattro volte tante, superando di gran lunga le 4000 anime. Nel corso del Novecento le differenze si cristallizzano pur dentro una fase espansiva che porta la popolazione totale dei due centri ad oltrepassare le 12.000 unità, ma solo un quarto di esse risultano espresse da Magliano.

E’ innegabile che la mancata (o ridotta) crescita insediativa di Magliano sia per un verso riconducibile alla politica gestionale del feudo da parte dei Celestini e per l’altro alla perdita dell’autonomia amministrativa che finisce per accentuare il diverso percorso demografico e per segnare inevitabilmente l’isolamento comunitario. Questa marginalità urbana non è stata mai pienamente accettata dalla popolazione maglianese, che ha cercato di far pesare il suo decisivo apporto sulle sorti dell’amministrazione comunale di Carmiano spesso affidandosi a personaggi opachi, come Paolino Rosato (conosciuto dalle generazioni successive come il “brigante” di Magliano), chiamato più volte a ricoprire il mandato di decurione (assessore nel governo locale), ruolo esercitato con spregiudicatezza e protervia, con frequenti soprusi e angherie nei riguardi di cittadini inermi e finendo per dare una rappresentanza oltre modo negativa ad un microcosmo abitativo, Magliano appunto, che cercava ad inizio Ottocento un rapido riscatto sociale dopo il declassamento amministrativo. Le rivendicazioni campanilistiche, pur senza esplodere in rivolte, alimentano l’antagonismo tra i due centri riuniti sotto un solo municipio, perdurando oltre il dovuto, ma con l’Unità d’Italia la marginalità urbana della frazione tende gradualmente ad essere superata attraverso l’elaborazione e poi la realizzazione delle nuove arterie stradali. Tra fine ‘800-inizio ‘900 Magliano si vede assegnare un ruolo centrale (di passaggio obbligato) nel collegamento viario con Lecce, rovesciando l’antica sudditanza con Carmiano. Viene abbandonata la vecchia carrozzabile tracciata dai Celestini nel tardo Quattrocento e attivata l’arteria Magliano-Arnesano-Lecce che diventa la nuova strada su cui far confluire il traffico prima dei rudimentali traini e birocci e poi nel Novecento inoltrato anche dei motori a scoppio. Carmiano a sua volta si apre a collegamenti più rapidi con i paesi limitrofi, con la messa in opera di infrastrutture viarie a raggiera con Novoli, Salice, Veglie, Leverano, Copertino e Monteroni. Si creano solo a metà del XX secolo le condizioni per una nuova fase di sviluppo, accomunando i due centri, Carmiano e Magliano, in un unico progetto di rinascita sociale ed economica-produttiva. Bisogna attendere insomma i decenni a noi più vicini per capire che capoluogo e frazione sono una sola comunità legati indissolubilmente da un comune destino.                                       

Mario Spedicato

Published in Attualità

Bisogna conoscere il passato per preparare il futuro. Il passato di Carmiano è stato oggetto di diverse ricerche storiche. Si è cercato di dare un volto, un’identità ad una comunità che ha attraversato cinque-sei secoli di storia conservando pochissime tracce del suo passato. Carmiano è uno dei pochi paesi del Salento che ha distrutto quasi interamente il suo centro storico, a partire dalla sua chiesa parrocchiale cinquecentesca e dei suoi quattro rioni intitolati alle famiglie più antiche. Sono sopravvissuti solo la chiesa dell’Immacolata e il palazzo semi diruto dei padri Celestini di Santa Croce di Lecce, signori per quattro secoli del feudo e in buona sostanza fondatori dell’odierno paese. A considerare questa sistematica demolizione, iniziata in pieno Ottocento e completata un secolo dopo, Carmiano sembra aver perso la sua originaria identità, divenendo agli occhi degli stessi suoi abitanti un paese “senza storia”, senza cioè un passato visibile a cui aggrapparsi per costruire il suo futuro. Chi visita oggi Carmiano cerca una piazza (l’antica agorà) senza mai trovarla, un reperto archeologico significativo senza conoscere dove è custodito, una remota presenza umana (attestata dallo stesso nome del paese) ma non ancora suffragata da una documentazione certa e inoppugnabile. Il paese è finito in un vicolo cieco, la cui oscurità permane non solo a livello di indagine storica ma anche sul piano prospettico nel senso cioè che è difficile per un attento osservatore immaginare quale sarà il suo futuro.

Su questo giornale ho già scritto un pezzo intitolandolo provocatoriamente “Carmiano sopravviverà al 2050” cercando di argomentare il disordinato sviluppo urbanistico che non promette nulla di buono per il futuro. Il paese è cresciuto senza un piano regolatore, con logiche pervasive di abusivismo che seppure sanato per via normativa non lo ha affatto affrancato da un destino irrimediabilmente compromesso. Oggi Carmiano appare un confuso agglomerato di case, costruzioni messe le une accanto all’altre senza una chiara e razionale finalità, ma con il solo obiettivo di cementificare i residuali spazi disponibili. Agli occhi di un forestiero il paese sembra soffocare dentro un confine urbano troppo stretto per assicurare un’agibilità ed una vivibilità adeguata alla popolazione residente. Difficile venirne a capo in tempi brevi. Ci vorrebbe un ambizioso e coraggioso piano di risistemazione del territorio per correggere (o almeno contenere) le storture edilizie messe in atto. Come quello perseguito e realizzato (unico nella storia del paese) nel corso del ‘600, periodo in cui non vi erano né ingegneri né architetti, ma mastri artigiani come amministratori i quali di fronte all’esplosione demografica dell’antico nucleo urbano (pozzo del casale) disegnarono le nuove direzioni di sviluppo edilizio inventando il rione Gagliardina con strade ben squadrate, che oggi appaiono forse strette per le macchine e i trattori, ma che allora servivano per far circolare in tutta sicurezza traini e carrozze. Da tempo il paese attende altri amministratori illuminati che sappiano con scelte oculate ridare alla comunità residente quello che effettivamente manca, larghi spazi di verde e ossigeno in abbondanza per rendere il paese vivibile e in prospettiva attrattivo per chi vuole continuare e/o ritornare a vivere.

Come è noto Carmiano occupa nella provincia gli ultimi posti per il verde pubblico. Non è un dato da vantare e divulgare, ma a questo ritardo si può rimediare con una politica che sappia in maniera anche graduale elaborare un piano di interventi mirati. Partendo però da una preliminare considerazione sul ruolo esercitato dal paese ora come ora. Diversamente da altri paesi limitrofi, come Leverano, Veglie, Copertino, che hanno già acquisito una chiara connotazione urbana nel settore dello sviluppo economico-sociale, Carmiano si è progressivamente tipologizzato come “paese dormitorio”, senza una chiara identità produttiva, sopravvivendo sostanzialmente al declino per l’apporto determinante fornito dal mondo delle professioni liberali (avvocati, medici, e altri) che ruotano sul capoluogo, da una larga schiera di insegnanti il cui perimento d’azione abbraccia tutta la provincia, da un terziario abbastanza diffuso nelle istituzioni pubbliche e soprattutto da una consistente presenza di pensionati che hanno scelto, nonostante le sirene dei figli che li reclamano, di restare a vivere nelle loro case costruite con tanti sacrifici. In buona sostanza Carmiano si sta lentamente avviando a diventare un paese con pochi giovani e pochissime nascite. Fra due mesi il paese sarà anche privo di pediatri. I giovani attrezzati di titoli di studio cercano altrove il loro futuro, spesso formandosi una famiglia lontano dal luogo natio; altri giovani, pur non dotati di specialismi avanzati, seguono la stessa strada per sbarcare il lunario. La desertificazione residenziale al momento sembra attutita dall’apporto migratorio esterno (indispensabile soprattutto nel settore dell’assistenza agli anziani), ma nei prossimi decenni è destinata ad aggravarsi per le politiche governative messe in atto. Il declino demografico sarà inevitabile. Carmiano potrebbe non essere attrattivo neppure ai carmianesi che ora lo abitano. Per scongiurare questa deriva è necessario ripensare il paese in maniera diversa da come è stato costruito nel recente passato, attrezzarlo diffusamente di quei polmoni di verde mancanti per renderlo più vivibile ed accogliente. Un paese con queste nuove caratteristiche potrebbe esercitare un ruolo diverso da quello attuale, aprirsi ad una nuova e più larga fruizione che serva anche a decongestionare l’affollamento estivo della vicina costa di Porto Cesareo. Se il mare è considerato la risorsa più importante del terzo millennio per l’intero Salento, Carmiano potrebbe proporsi come centro di supporto di un’economia turistica in espansione e diventare in pochi lustri una meta gradita anche per i tanti forestieri che amano il nostro mare ma che scelgono di godersi l’entroterra evitando il soffocamento ambientale delle marine.

Mario Spedicato

Published in Attualità
Lunedì, 28 Febbraio 2022 12:01

Carmiano esisterà ancora dopo il 2050?

Può sembrare una domanda retorica chiedersi se Carmiano riuscirà a sopravvivere nella svolta di metà secolo, ma guai a schierzarci sopra. Il problema è maledettamente serio. Può darsi che il nucleo abitativo non scomparirà dalle carte geografiche, ma non sarà più quello che abbiamo conosciuto nel recente passato e neppure quello che viviamo ai giorni nostri. I parametri disponibili spingono ad ipotizzare nel breve-medio periodo un declino irreversibile, che se non corretto con interventi coraggiosi e di lunga prospettiva finirà per oscurare progressivamente il volto di una comunità urbana che agli occhi anche di un distratto osservatore fatica enormemente a conservare una propria, inconfondibile identità.

  1. Il trend demografico negativo

Negli ultimi decenni il paese ha rovesciato in maniera lineare ma senza soste il ciclo evolutivo del primo Novecento. Oggi la popolazione di Carmiano (insieme a Magliano) arriva a toccare, secondo i dati Istat, poco meno delle 11.500 unità. La crescita demografica si è fermata agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso. Negli ultimi 20-30 anni ha segnato un decremento costante, contenuto solo dal fenomeno migratorio di rientro e dall’apporto di residenti esteri (comunitari ed extracomunitari), che riduce le perdite in poche centinaia di abitanti. Se dovessimo depurare il dato anagrafico dalla presenza forestiera Carmiano ha perso negli ultimi anni in maniera secca quasi 1000 abitanti, una cifra destinata a raddoppiarsi nel prossimo quinquennio. Le prospettive non sono confortanti. A metà secolo la popolazione complessiva, se non ci saranno politiche di sostegno, potrebbe addirittura dimezzarsi. Non sono ipotesi campate in aria. Il tasso di natalità dai primi anni del terzo millennio è sceso paurosamente, attestandosi mediamente al di sotto dei 100 nati all’anno. Il rapporto nati-morti, prima in sostanziale equilibrio, dal 2011 si è sbilanciato vistosamente, segnando un numero maggiore di morti all’anno rispetto alle nascite. Una situazione peggiorata negli ultimi due anni di Covid-19. La denatalità si sta rivelando un fenomeno inarrestabile e foriero di scenari preoccupanti nella tenuta demografica del paese con una popolazione residente che perderà progressivamente le sue attuali connotazioni anagrafiche. Sarà sempre meno un paese di giovani per diventare sempre più un paese di vecchi.

  1. Quali giovani?

Anche il futuro dei giovani sembra lontano dal paese. Negli anni ’60-70 del secolo scorso abbiamo esportato manovalanza giovanile nelle aree più ricche dell’Europa e dell’Italia, arricchendo di forza-lavoro a basso costo le parti più industrializzate del vecchio continente. Il fenomeno migratorio ha preso però una direzione diversa a partire dagli anni ’80 in poi con il graduale (anche se parziale) rientro in paese dei lavoratori poco specializzati seguito dall’uscita di altri lavoratori più specializzati che si sono sostituiti ai primi. Il diffuso processo di scolarizzazione di massa registrato dagli anni ’60 in poi del secolo passato ha cambiato volto alla popolazione di Carmiano, trasformandolo profondamente, da un paese di contadini ad un altro di intellettuali e di professionisti e aprendo la strada verso altre e più accattivanti migrazioni. Negli ultimi due decenni del ‘900 ha esportato al nord competenze e intelligenze formatesi in larga parte nella neonata università leccese e in via sempre crescente anche in altre istituzioni accademiche della penisola. Il paese si è impoverito di energie giovanili e di quelle soprattutto destinate all’insegnamento, andando a trasferire ricchezza (non solo intellettuale) in altre regioni d’Italia. Altre competenze maturate in settori di alta specializzazione scientifica hanno trovato facile accoglienza altrove, impoverendo la comunità di forze vive che avrebbero potuto aiutarla ad uscire definitivamente fuori dall’anonimato. Un trend, quello del trasferimento delle competenze, che non sembra affatto arrestarsi e, date le condizioni socio-economiche del nostro territorio, destinato a ricevere nuovi e più stimolanti impulsi.

  1. Il degrado ambientale

Il paese in seguito all’involuzione demografica e alla perdita delle sue migliori energie intellettuali sembra posizionarsi su un crinale di non ritorno, aver perso cioè i due parametri essenziali per assicurare alla popolazione residente un futuro rassicurante. Carmiano (e per esso la sua classe dirigente) oggi è costretto a fare i conti con una realtà che già mostra i segni di un declino irreversibile. Popolazione che invecchia velocemente, abbandono esponenziale delle case di proprietà, desertificazione culturale, assistenzialismo diffuso. Ma soprattutto degrado ambientale che non fa presagire nulla di buono. Sorprende il dato relativo al verde pubblico, attestantesi allo 0,9% dell’intero territorio urbano, praticamente nulla e non è un caso se il paese nella settoriale classifica della provincia è all’ultimo posto. Senza il verde non si vive, ma soprattutto non si incoraggia a restare e ad abitare permanentemente le proprie case. Per convincere anche gli anziani a non abbandonare il paese per raggiungere i propri figli stabilitisi altrove bisogna investire nel verde, fare di Carmiano un paese green, capace non solo di trattenere chi ancora ci abita, ma anche di incoraggiare chi si è trasferito a ritornare per godere pienamente dell’ambiente che li ha visti nascere e più in generale delle bellezze paesaggistiche e naturalistiche (il mare soprattutto) che rendono questa terra salentina attrattiva e unica.

Mario Spedicato

Published in Attualità
Pagina 1 di 2
030_solazzo.jpg025_martena.jpg045_vcn.jpg180_quarta.jpg030_ortokinesis.jpg070_annaluce.jpg170_pneumatic.jpg